La gabbia dorata. Quando siamo bloccati tra l’autorealizzarci e il non sapere come fare.
Oggigiorno le persone, indipendentemente dalla loro età, dal loro status, dal loro percorso di vita, si sentono insicure. Questo senso di insicurezza è dato da un paradigma a cui ci si continua ad appellare senza rendersi conto del fatto che è superato, e che risale ai tempi in cui Frederick Taylor mise a punto la sua teoria per l’organizzazione scientifica del lavoro.
La teoria taylorista, che si basava sulla razionalizzazione del ciclo produttivo secondo criteri di ottimalità economica, prevedeva che all’interno degli stabilimenti industriali i manager fossero coloro preposti ad analizzare le caratteristiche della mansione da svolgere, a creare il prototipo del lavoratore adatto a svolgere quella mansione, a selezionarlo e formarlo per introdurlo in azienda. Dall’altra parte c’era l’operaio, che non doveva far altro che assumere il protocollo seguendolo per filo e per segno.
Tra il manager e l’operaio c’era un capetto preposto al controllo, il cui unico compito era misurare lo scarto dell’esecuzione rispetto al protocollo.
Il modello di Taylor, pensato appositamente per la produzione industriale, è andato a poco a poco a permeare tutti gli ambiti della vita con il risultato che, nella nostra cultura, ogni cosa ha un modello ideale con il quale la confrontiamo e ci confrontiamo.
Il modello ideale di figlio: che studia e va bene a scuola, che rispetta tutte le regole, che ha amici buoni che conosciamo e di cui ci fidiamo, che non beve e non fa uso di droghe e che – possibilmente – sistemi anche la sua stanza.
Il modello ideale di lavoro: un contratto a tempo indeterminato e la certezza dello stipendio a fine mese così possiamo comprare la macchina, lo smartphone di ultima generazione, la borsa di marca, il televisore al led da 50 pollici, le scarpe e i vestiti.
Il modello ideale di donna: che si sposa, che fa figli, che ha un lavoro e che, contemporaneamente, riesce a occuparsi della cura della casa. Il tutto possibilmente entro i trent’anni e vantando una taglia 40.
Il modello ideale di uomo: che ha un buon posto di lavoro tale da poter mantenere la sua famiglia, che riesca ad interpretare i pensieri della moglie anche se lei non li esprime a parole, che sia premuroso con lei e con i figli ma che conservi quell’autorità e quella virilità che agli uomini viene insegnata sin da bambini.
Se potessimo dare una veste grafica a quanto affermato, il risultato sarebbe il seguente:
Per molto tempo questo paradigma ha funzionato. L’individuo ritrovava sé stesso dentro un orizzonte di senso condiviso con la comunità di appartenenza, poteva vivere una vita già decisa per lui e percepirla come una buona vita, aderiva completamente ai ruoli sociali che impersonava e riusciva a dare un senso alla propria esistenza.
Ancora oggi questo paradigma pervade le nostre menti.
Chiunque noi siamo, qualunque sia la nostra realtà, dobbiamo tendere alla norma. Cercare di uniformarci a quell’ideale. Più ci allontaniamo dalla norma, più è ampio lo scarto. Più è ampio lo scarto, più ci sentiamo frustrati dalla nostra inutilità e dalla nostra incapacità di adeguarci allo standard. Anche se facciamo passi avanti verso la norma, quello su cui puntiamo lo sguardo – e su cui lo puntano le persone intorno a noi – non è il potenziale di sviluppo ma solo lo scarto. Con la conseguenza di incappare in un narcisismo nichilista.
Quello che non riusciamo a capire è che l’insicurezza non si supera colmando lo scarto ma puntando sulle proprie potenzialità e destrutturando il paradigma.
Che il segreto di una vita piena e soddisfacente non sta nell’omologazione ma nella differenziazione e nell’integrazione. Che questo non ci renderà una mosca bianca tra mosche nere ma una mosca bianca tra mosche di mille colori.
L’identità non è più, come accadeva un tempo, qualcosa di dato una volta per sempre. Bensì essa ha bisogno di essere continuamente creata e mantenuta attraverso latrascendenza, la facoltà di sentirsi in sintonia con l’universo infinito della specie umana.
Non si tratta di essere modelli di perfezione, ma di lottare per vivere bene, di impegnarsi in nome della felicità. Di dare uno scopo alla propria vita. Scopo che rintracciamo interrogandoci sul senso e sul significato che vogliamo abbia. Per noi stessi ma soprattutto per gli altri. Perché la felicità si ottiene rendendo felici gli altri attraverso il meglio di sé.
Il Coaching Umanistico consiste proprio in questo: aiutare le persone insoddisfatte, che sentono una profonda contraddizione tra chi sono e chi avrebbero potuto essere, ad interrogarsi sul proprio senso e significato in una fase in cui la spinta all’autorealizzazione è diventata una motivazione primaria che ha modificato il modo di concepire la vita, le relazioni, l’educazione, il lavoro. Spinta che si inserisce in uno scenario in cui la crisi di valori e di leadership ha eliminato l’offerta di paradigmi e scopi forti su cui investire la propria esistenza.
Il Coaching Umanistico vi aiuterà proprio in questa fase della vostra vita, nella quale siete bloccati fra la necessità di autorealizzarvi e il non sapere come.
Nella quale domande del tipo, come educare i figli alla felicità? Come scoprire le proprie vocazioni? Come poter amare senza essere feriti? Come orientarsi nel mondo? Come cambiare organizzazioni inefficienti perché fondate su modelli fordisti inutili e dannosi? Come e perché essere felici? riempono la vostra testa e vi creano ansia e insicurezza.
Nella quale domande del tipo, come educare i figli alla felicità? Come scoprire le proprie vocazioni? Come poter amare senza essere feriti? Come orientarsi nel mondo? Come cambiare organizzazioni inefficienti perché fondate su modelli fordisti inutili e dannosi? Come e perché essere felici? riempono la vostra testa e vi creano ansia e insicurezza.
Il campo di applicazione del Life Coaching, infatti, è lo sviluppo personale, ossia il processo di autogoverno cosciente e motivato che indirizza le scelte di vita nel rapporto con sé stessi, le relazioni affettive e le necessità professionali.